VADO A CERCARE LA NEBBIA DI FELLINI

by Billy Bogus

Visita a Fellini 100, Genio Immortale. La Mostra

Vado a cercare la nebbia di Fellini e trovo il sole: una giornata di sole splendido in una Rimini splendidamente in forma che mi ha condotto, tra ristoranti e bistrot, dritto a “Fellini 100″. Genio immortale”, mostra per i cent’anni dalla nascita di Federico Fellini: scrittore, vignettista, disegnatore e regista che utilizzava la “menzogna” del cinema per descrivere molteplici realtà, oppure nessuna realtà. Ora, non sono qui certo a presentare uno come Fellini, piuttosto vi parlo della mostra a lui dedicata in scena a Rimini fino al 15 marzo 2020, piccolo assaggio del museo “composto” pronto entro la fine dell’anno: la mostra va in scena a castello Sismondo di signoria Malatestiana, in pieno centro storico. Si attraversa quello che nel ‘400 era il vecchio fossato, e si va in cassa. Il già economico biglietto d’ingresso dimezzato al solo palesare il ticket del treno (un applauso all’organizzazione!) e si entra.

Come ogni mostra che si rispetti la prima tappa è il “percorso biografico” dove, dalla nascita alla morte, vengono illustrati i momenti della vita personale ed artistica del regista. E’ impossibile ed inutile riassumere tutto in questo articolo ma ci sono alcuni punti che hanno attirato la mia attenzione: Fellini dal 1939 circa si trasferisce a Roma, non frequenta giurisprudenza come promesso ai genitori, ma comincia a scrivere gag per alcuni film di Macario, battute per nientemeno che Aldo Fabrizi e presentazioni radiofoniche per l’EIAR, Ente Italiano Audizioni Radiofoniche (l’EIAR è fattore costante anche della mia ultima lettura “Jazz e Fascismo” – Mimesis Edizioni – la quale chiarisce il ruolo della radio e della stampa discografica in Italia già dal primo dopoguerra).

Altra peculiarità che mi ha solleticato è che, sempre nel 1939, Fellini viene ricevuto dall’allora segretario di redazione del bisettimanale “Marc’Aurelio” Stefano Vanzina, anche noto come Steno: ebbeni sì, il padre dei fratelli Vanzina è stato forse il primo ad accogliere Fellini nella capitale, nell’ambito di una pubblicazione satirica che raccoglieva le migliori testate umoristiche dell’epoca. Nel 1943 l’EIAR fa di nuovo capolino e diventa scenario di uno degli incontri più importanti, quello con la futura moglie Giulietta Masina che in quell’anno dava voce a Pallina, uno dei personaggi inventati proprio da Fellini.

Nel percorso ci sono molte altre curiosità sulla portata autobiografica di alcune pellicole: dalla “fuga verso Roma” dell’aspirante scrittore Moraldo alla fine de “I Vitelloni”, alla statua del Cristo Lavoratore trasportata in elicottero come incipit de “La Dolce Vita”, scena ispirata da un fatto realmente accaduto nel 1956. E qui si apre un altro capitolo della rassegna, ovvero quanto il cinema Felliniano, seppur definito onirico ed ineffabile, fosse in realtà continuamente ispirato dalla vita reale, e soprattutto dai fatti di cronaca. Si spalanca il sipario sulla seconda parte (la cornice del castello malatestiano devo dire è tanta roba!) e tre megaschermi, suddivisi in due parti ciascuno, ripropongono alcuni spezzoni di film con accanto altrettanti cut di cinegiornali, fatti di cronaca ed interviste a gente comune che hanno innegabilmente influenzato l’opera felliniesque. Autentiche sedute da vecchio cinema permettono ai visitatori di assistere a questa visione di citazioni continue, quasi inaspettate per chi ha sempre reputato l’arte felliniana “ultra-dimensionale”, grottesca o surrealista: Fellini ci parlava in realtà, a modo suo, di vita reale e vissuta, o perlomeno delle atmosfere che la permeano. O era la realtà a permeare il sogno?

Non a caso si dice che il giornalista-regista  Gualtiero Prosperi, pupillo di Indro Montanelli, ideatore di svariati cinegiornali nel secondo dopoguerra, fondatore di “Cronache” (forse la prima pubblicazione scandalistica italiana) e regista del nostro amato “Mondo Cane” assieme a Franco Prosperi (e quindi fondatore indiscusso del “Mondo Movie” come genere cinematografico mondiale), abbia ispirato il personaggio di Marcello Rubini ne “La Dolce Vita” in quanto Prosperi era un verace mondano e giornalista particolarmente legato al gossip come forma di denuncia cruda di un boom economico che già mostrava la sua decadenza.

Seppur non esplicitamente dichiarato, il collegamento tra dimensione onirica e cronaca è immediato in questa affascinante sezione e, proprio come Sergio Leone copiava letteralmente i quadri di de Chirico per le evocative scenografie dei suoi western, così Federico Fellini “campionava” scene di cronaca e rotocalchi per creare una realtà parallela: autentici sogni dove la realtà, spesso becera e misera, faceva eco di lontano, ovattata, indefinita, ma forse per questi motivi ancora più “reale”.

 

“Un film per me è veramente qualcosa di assai vicino a un sogno amico ma non voluto,
ambiguo ma ansioso di rivelarsi vergognoso quando viene spiegato,
affascinante finchè rimane misterioso.” (F.Fellini)

 

Mi sposto  ai piani alti (ed altri) per raggiungere temi cari a questa rubrica: la musica in primis. Il rapporto con l’elemento musicale è, come tutto il cinema di Fellini, ambiguo,  paradossale e basato su emblematici chiaroscuri.
Eccezionale è la dichiarazione, citata a caratteri cubitali su una parete del castello, di Nicola Piovani, compositore delle musiche di “Ginger e Fred” e “La Voce della Luna”, che recita: “Voi che fate i compositori” diceva a me Fellini “non inventate nulla, siete come dei rabdomanti, state in contatto con un universo parallelo”.
E così le indimenticabili arie di Nino Rota (che raggiunge il suo apice con gli score di “Il Casanova di Fellini” e “Amarcord”) e Morricone sono abbondantemente descritte in questa terza parte della carrellata, mentre all’ultimo piano troviamo nientemeno che i costumi di Casanova che valsero l’Oscar, frammenti di foto e cineromanzi (a dimostrazione che il mondo comunicativo che a noi piace definire “alto” e “nobile” di un certo cinema era in realtà in diretto contatto con la strada, e perdonate la citazione),

“Il libro dei Sogni”, consigliato dallo psicanalista Ernst Bernhard e disegnato interamente dal regista, e poi interviste, momenti celebrativi e tanto altro. Tuttavia la mostra non risulta “eccessiva” e alla fine del percorso si ha l’impressione che una sintesi intelligente abbia prevalso su tutto il progetto. Bene.

Cosa manca?
Prima di tutto non ho visto alcun riferimento all’incredibile episodio “Toby Dammit” in “Tre passi nel delirio”, pellicola cult del 1968 suddivisa in tre episodi ed ispirata ai racconti di Edgar Allan Poe: all’epoca  i tre registi coinvolti furono Roger Vadim, Louis Malle, e Federico Fellini appunto. L’episodio del regista riminese è l’ultimo e, come anticipa il titolo, è un delirio vivido ed autentico: l’arrivo dell’attore inglese “Toby Dammit” interpretato da uno strepitoso Terence Stamp, è cupo, ombroso, tormentato e viene ingurgitato da una roma grottesca, sconnessa, che non lascia scampo. Il contatto con l’occulto è regolarmente menzionato nella mostra (come ignorarlo? Sarebbe come ignorare il cinema di Fellini) ma non si attua mai un concreto richiamo alla frequentazione da parte del regista di circoli esoterici, voce che è in giro da decenni ma che a mio avviso meriterebbe un ulteriore approfondimento, oppure , al pari delle possibilità, una definitiva smentita.

Cosa ci manca?
Fellini sapeva trasformare l’hybris italica in un fantastico motore per i suoi sogni. Non sono i sogni stessi vita? La disarmante sensazione che questa mostra mi ha comunicato in modo del tutto implicito è che oggi forse vogliamo trasformarci in ciò che non siamo: schiavi di paragoni europeisti e statistiche di ogni tipo oggi vorremmo “elevarci” a razionalismi teutonici e rigorismi nord europei che non ci appartengono culturalmente. La verità, in qualità di italiani, è che abbiamo rinunciato al contatto con le dimensioni “altre” , all’estro vitale e positivamente caotico, in poche parole, ad avere visioni.

Anche per questi messaggi involontari la mia personale valutazione di “Fellini 100 Genio immortale” rimane di gran lunga positiva, soprattutto perché grazie alla sua sintesi descrive “la nebbia” di Fellini come trait d’union di tutta la sua poetica: un elemento cupo, anticamera di una sfera occulta, ma anche leggero, ironico e sognante. Attraversando le sale non permea una particolare rivendicazione nazionale o “proto-nazionalista” del regista: non è veramente importante che Fellini fosse italiano, incarnando egli stesso uno stile che smuove ancora oggi sfere legate al subconscio e che trascende qualsiasi fenomeno di protesta, realismo e denuncia.

Concludo questa corposa “special issue” di Night Movie con un piccolo tributo musicale a un tipo di cinema che mi ha letteralmente trasportato in mondi paralleli, racchiusi a loro volta in un mondo del tutto mio, locale, emiliano-romagnolo. Il mio amato jazz-ensemble Strata-Gemma dedica questo brano a “Lo Sceicco Bianco”, film che gioca ancora una volta con realtà e finzione, e naturalmente a Fellini, genio immortale.

 

 

 

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