La sensazionale stagione del britpop degli anni ’90, senza scomodare mostri sacri quali Blur, Oasis, Suede, Pulp, The Verve e Stone Roses, ha sfornato band dalla minor notorietà ma capaci di scrivere canzoni indimenticabili. Tra i tanti possiamo annoverare il gruppo multietnico dei Cornershop, il cui nome deriva da uno stereotipo riferito ai cittadini britannici originari dell’Asia Meridionale spesso proprietari di negozietti di alimentari, che giungono in punta di piedi nella scena indie rock britannica nel 1991. La band nasce a Wolverhampton dall’unione tra i fratelli di origine indiana Tjinder Singh (voce e chitarra) e Avtar Singh (basso e voce) con il batterista David Chambers e il tastierista e chitarrista Ben Ayres. Il loro sound mescola sonorità della musica popolare indiana (più precisamente dello stato del Punjab) con un alternative/noise rock con contaminazioni elettroniche, le cui influenze spaziano dai Sonic Youth fino ai Primal Scream. I testi dei Cornershop sono fortemente politicizzati e rivolgono critiche alle posizioni razziste di leader politici e artisti, non risparmiando nemmeno un’icona brit come Morrissey. Dopo alcuni EP, nel 1994 esce il loro primo album Hold On It Hurts; il disco ha scarso successo commerciale ma impressiona positivamente la critica tanto che un certo David Byrne li mette sotto contratto per la sua etichetta Luaka Bop. Questo è il passo decisivo, tra un’apparizione al Lollapalooza e i concerti di supporto a Beck e Oasis, per arrivare al vero successo della loro carriera: nel settembre del 1997 esce l’album When I Was Born for the 7th Time. Le sonorità noise si ammorbidiscono in favore di uno stile più pop con una buona dose di psichedelia e di funk lo-fi. L’influenza della musica indiana è ancora molto forte grazie anche all’utilizzo di strumenti come l’harmonium e il sitar che sostengono deliziosi melodie punjabi, il tutto impreziosito dalla voce sorniona di Tjinder Singh che mostra fieramente il suo accento anche nel cantato. When I Was Born for the 7th Time ottiene un grande successo di critica grazie anche ad una nutrita schiera di ospiti eccellenti come la cantautrice americana Paula Frazer, Justin Warfield del gruppo dark wave She Wants Revenge, ma soprattutto del leggendario poeta della beat generation Allen Ginsberg, ispiratore di numerosi cantautori a partire da Bob Dylan. Ginsberg, recitando una sua poesia nell’ottavo brano dell’album When The Light Appears Boy, lascia così ai posteri una delle ultime testimonianze della sua arte: i membri dei Cornershop si erano infatti recati a casa del poeta e scrittore, pochi mesi prima della sua morte, per effettuare la registrazione. A concludere l’opera anche una cover in lingua punjab del brano dei Beatles Norwegian Wood, un incantevole abbraccio musicale tra culture che riceverà ottimi feedback pure da Paul McCartney e Yoko Ono. La band può davvero ritenersi soddisfatta di questo terzo album nonostante non riesca ancora a trovare una hit che possa farle scalare le classifiche; la candidata ideale sarebbe Brimful of Asha (seconda traccia del disco), pezzo in stile Velvet Underground molto apprezzato anche dal leggendario dj radiofonico John Peel, ma che tuttavia manca di mordente. Ecco quindi arrivare in soccorso un certo Norman Cook, più conosciuto come Fatboy Slim: il dj britannico adora la traccia e decide di darle il suo tocco personale pubblicandone un remix in edizione limitata esclusivamente su LP che esce nel febbraio del 1998. Norman Cook si approccia al brano con assoluta maestria apportandovi piccole ma fondamentali modifiche, ovvero velocizzandolo e cambiandone tonalità in chiave maggiore: il risultato è strepitoso e il brano scala presto le classifiche di tutto il mondo piazzandosi addirittura al primo posto nel Regno Unito. Il pezzo va fortissimo nelle discoteche e la prestigiosa rivista NME lo onorerà con un secondo posto tra i migliori remix della storia della musica pop. La “cura Fatboy Slim” aiuta anche il pubblico a riscoprire la qualità del testo di Brimful of Asha, sicuramente uno dei più divertenti e originali nella scena britpop degli anni ’90. La lirica è una vera dichiarazione d’amore dei fratelli Singh verso la cultura cinematografica del loro paese e in particolare verso la cantante Asha Bhosle, il cui nome viene menzionato nel ritornello e anche nella prima strofa con l’appellativo di Sadi Rani, che nella lingua punjabi significa “nostra regina”. Uno stilema del cinema indiano fin dagli esordi infatti è l’inclusione di spezzoni musicali ballati e cantati in playback dagli attori: cantautori professionisti eseguono la canzone in sottofondo, mentre gli attori in scena cantano in labiale. Asha Bhosle, con un repertorio di quasi 12.000 canzoni, è una delle più prolifiche cantanti in playback del cinema indiano, ma lavorando dietro le quinte risulta meno famosa rispetto agli attori che invece appaiono sul grande schermo. Oltre ad Asha, nella canzone viene nominato anche il cantante in playback Mohammed Rafi, avvalorando così la passione dei fratelli Singh per queste star misteriose che, tramite le loro canzoni, aiutavano i giovani ad evadere dalle rigide tradizioni della società indiana. Il testo di Brimful of Asha contiene anche riferimenti a musicisti non indiani come George Brassens e Marc Bolan e all’etichetta discografica Trojan Records, celebre per aver portato le sonorità reggae e ska nel Regno Unito sul finire degli anni ’60, influenzando così band leggendarie quali Clash, Police e Madness. Un’ulteriore spinta per il successo della canzone è sicuramente il suo videoclip nel quale possiamo ammirare una ragazzina perdersi tra decine di dischi in vinile colorati, le cui copertine si animano con i componenti dei Cornershop. In un anno, il 1998, in cui il CD è ancora padrone del mercato discografico e si sente già parlare di musica digitale, il video esprime in modo prorompente la passione per l’universo del vinile.
“BRIMFUL OF ASHA”, CORNERSHOP, 1997
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