
May You Live In Interesting Times, 58° Biennale di Venezia
Lo so che ti ho abituato a voli, esplosioni e immersioni nel mondo dell’arte cosiddetta “ultra contemporanea”, però oggi ti va di navigare insieme a me tra i canali di una splendida Venezia pervasa da arte? Oramai è un mese che la 58° edizione della Biennale ha aperto le porte e noi non potevamo non dare un’occhiata. Il titolo di questa edizione è “May you live in Interesting times” curata da Ralph Rugoff, attuale direttore della Hayward Gallery di Londra. In mostra ci sono 84 paesi internazionali, di cui 4 nuove partecipazioni: Ghana, Madagascar, Malesia e Pakistan. Il padiglione italia, curato da Milovan Farronato, propone gli artisti Enrico David, Liliana Moro e Chiara Fumai. Ovviamente non sono andata da sola, ma con tutto il team (ti avevo già parlato delle nostre #vacarte?). Ecco, questo weekend abbiamo anche festeggiato il compleanno di Erika, esattamente come si fa a Venezia: Spritz, barche, tequila, e grigliata di pesce. Perché l’arte crea connessioni, euforia, e leggerezza d’animo. Non è solo qualcosa da guardare, ma direi più uno stile di vita e mi fa piacere raccontarti tutto quello che sta intorno una semplice opera: ci sono rapporti e occasioni.
Torniamo a noi e alla Biennale… Una biennale carnosa e che sicuramente vuole attivare una riflessione critica per il visitatore su tematiche attuali urgenti. Andrai a vederla?
Probabilmente ti sentirai scosso da alcune opere che risultano molto forti e suggestive mentre passerai in alcuni padiglioni senza provare nulla. Ma è assolutamente normale. Per me, le opere presentate avevano la capacità di interpretare in maniera ampia la realtà, gli oggetti, gli scenari e le situazioni che ogni giorno ci circondano. Ho trovato un’arte che creava collegamenti davvero complessi e che mi ha permesso di capire come l’ordine del mondo si stia trasformato nella presenza di “ordini diversi”. Insomma una biennale “muscolosa” come direbbe Maria Chiara Valacchi
Quindi? Sei pronto\a a remare tra i padiglioni di questa immensa Biennale?
- “Untitled”, Shilpa Gupta

Untitled, MS Gate which swings side to side and breaks the walls, 2009
Al terzo posto metto un’opera di Shilpa Gupta, intitolata “Untitled”. Un cancello automatico in ferro che, compiendo un arco di 180°, sbatte sulle estremità di cartongesso alla quale è fissato. Un’opera che crea un fortissimo impatto visivo e sonoro: il movimento è così brutale e violento da frammentare, colpo dopo colpo, parti di muro, le quali cadendo sul pavimento creano un rumore talmente prepotente da spaventare alcuni visitatori. Questo carattere impetuoso dell’opera porta lo spettatore a voltarsi, a guardarla con curiosità e ragionare su ciò che questo cancello può rappresentare in questo contesto.

Untitled, MS Gate which swings side to side and breaks the walls, Venice Biennale, 2019
In questi casi, l’arte è energia pura, potenza incondizionata! Prova a pensare di come un “semplice” cancello in realtà possa essere la metafora di confini, limiti, barriere che ci vengono imposti, senza che noi possiamo sceglierli, ma quindi solo romperli. La pratica artistica di Shilpa Gupta attinge sicuramente alle divisioni etnico-religiose, all’isolamento e l’appartenenza, ma credo che sia un’opera che parli da sola, anche se non la comprendiamo in pieno o non ne leggiamo la spiegazione. É un’opera che urla, che rappresenta attraverso un movimento la nostra società, il cui tendere è un impatto talmente forte e disastroso, che se ci penso mi scendono quasi le lacrime.
- “Can’t Help Myself”, Sun Yuan e Peng Yu

“Can’t Help Myself”, Sun Yuan e Peng Yu, Venice Biennal 2019
Al secondo posto sicuramente “Can’t Help Myself”, l’opera realizzata dal duo più stravolgente di tutta la Biennale. Due artisti cinesi Sun Yuan e Peng Yu le cui opere sono un misto di concetti, esecuzione impeccabile, precisione robotica e forza irascibile. Un robot industriale inserito in una gabbia trasparente come se fosse una creatura-mostro rinchiusa. Un’opera di grande impatto, oltre che ad essere di grandi dimensioni, nella quale il robot continua meccanicamente a svolgere la stessa funzione: trascinare con delle spazzole un liquido rosso molto denso, scambiabile per sangue, entro uno spazio definito. Una volta che il robot ha concluso un giro di 360° inizia ad impazzire, a ribellarsi e quindi lanciare “sangue” su tutte le pareti della gabbia. Una scena davvero da bocca aperta. Chiunque guardava era sconvolto, non riusciva a distogliere lo sguardo, e così neanche io. Volevo andarmene ma quell’opera mi tratteneva, avevo i piedi inchiodati a terra, era come se con quel suo movimento mi parlasse.

“Can’t Help Myself”, Sun Yuan e Peng Yu, Venice Biennal 2019
Quando sei a contatto con questo tipo di opere, la tua interpretazione diventa fondamentale, adesso ti racconto qual è stata, prima che leggessi la spiegazione, l’idea che mi ero fatta era questa: credevo che l’opera fosse una similitudine della società, dell’uomo alienato rinchiuso in una gabbia (ovvero il mondo) dove il sangue e la guerra sono ancora un enormemente presenti. Invece no! Quando ho letto la spiegazione mi sono resa conto che gli artisti erano andati ben oltre e che effettivamente la mia interpretazione poteva essere assolutamente banale. Il liquido incontrollabile, che la macchina cerca costantemente di contenere, è un’incarnazione di quello che i due artisti considerano la fondamentale elusività dell’arte: il suo ostinato rifiuto di essere catturata ed incasellata. Lo trovo davvero geniale!
1.”Field Hospital”, Aya Ben Ron

Padiglione Israele, Venice Biennal, 2019
Per concludere al primo posto del podio porto la super esperienza avvenuta “nell’ospedale” riprodotto dal padiglione Israele, a cura di Avi Lubin. Il progetto, proposto dell’artista Aya Ben Ron, intitolato Field Hospital, ha l’obiettivo di ricercare modalità efficaci per agire e reagire di fronte ai mali che caratterizzano la nostra popolazione. In questo caso la struttura ospedaliera, chiamata Campo X, diventa l’espediente più forte per far provare ai visitatori un’esperienza indimenticabile. Ora, pensa di dover entrare in una vera e propria clinica per essere curato: ad attenderti saranno pareti bianche, sedie blu e uno staff in camice che ti accoglie. Già questo può farti capire il forte clima di tensione che l’artista è riuscito a creare. Lo spazio del padiglione, insieme al percorso che lo spettatore è tenuto a fare, sono davvero una ricostruzione verosimile e minuziosamente dettagliata: entri in una sala d’attesa, ritiri il tuo numero e aspetti di essere chiamato per entrare nell’unità di sicurezza. Mentre lo spettatore, nei panni di un paziente paziente, attende nello zona di ricezione, (noi abbiamo aspettato circa 30 minuti), assiste alla visione di un programma televisivo FHX e legge un libretto con le ideologie ospedaliere, le aree e le attrezzature di cura alle quali avremmo preso parte. Non ti racconto l’intera opera, anche perchè non voglio spoilerare troppo, ma solo la nostra percezione e la nostra esperienza in quel luogo così assolutamente “weird”.

Padiglione Israele, Venice Biennal, 2019
La cosa più suggestiva che mi ha colpito è che stavamo sostanzialmente aspettando di poter entrare in una stanza e urlare. Nel percorso, infatti, venivi accolto in una “camera di sicurezza”, dove all’interno nessuno poteva né sentirti né guardarti. Eri tu, una soffice moquette blu e una voce che ti dava indicazioni su come creare un urlo controllato e per farlo avevi 3 possibili tentativi. Credo che la cosa più “illogica” fosse il fatto che io, il mio team e altre 40 persone fossimo lì per urlare. Urlare forte, urlare al mondo e sentirsi libere per quei pochi secondi. Che se ci pensi è assurdo! Assurdo perché urlare è un’azione che potremmo fare tutti, in qualsiasi momento, ma non lo faccio mai, eppure né abbiamo così tanto bisogno. Tu a volte urli al mondo?
Questo esempio è estremamente importante e può farci ragionare sulla condizione dell’uomo, che vive in un mondo dove crede di essere libero, talmente libero che non riesce nemmeno ad urlare. E tu? Ti senti libero?
L’arte può aiutare come vedi!
Francesca Rossi,
@OTTNProjects
#BrilloBlog
P.s. Avete ascoltato la prima puntata del nostro podcast curato da Erika sulla Comunicazione digitale? Fatelo perchè è una vera bomba!